Se torniamo indietro a prima dell’Ottocento è
difficile trovare figure di artisti, cantanti o musicisti in condizioni di
assoluta libertà, ovvero che non vivessero in condizioni di subordinazione nei
confronti di un signore o padrone, di una corte specifica, di un potere
politico.
Per trovare una condizione in cui l’artista
fosse libero di comporre e non subordinato al potere bisogna paradossalmente
risalire al basso Medioevo cioè in quel momento durante il quale molti
mestieri, tra cui anche quello di musicista, cantore e persino i giullari e gli
intrattenitori, vennero integrati socialmente e non più banditi dalla società
come mestieri peccaminosi ed immorali.
Sotto la spinta di una progressiva
laicizzazione sociale e grazie anche all’opera dei confessori che miravano ad
integrare nella società tutte le nuove classi emergenti tramite penitenze più
lievi che non erano più riferite al peccato ma bensì al peccatore, ben presto
tutti i mestieri divennero leciti.
Gli artisti oltre ad essere tollerati, a partire dal XI-XII secolo, godevano anche di una certa libertà intellettuale. Il poeta che componeva in versi poteva spesso trovarsi relazionato all’ambiente universitario e nello stesso tempo essere da questo completamente indipendente: si trattava dei cosiddetti clerici vagi, studenti senza fissa dimora discendenti dei goliardi e antenati della bohème studentesca. Essi si spingevano da un’università all’altra mossi dal desiderio di avventura e arricchimento intellettuale fine a sé stesso, seguendo il maestro che li aveva più entusiasmati, accorrendo verso ciò di cui più si parlava[1].
Impetuosi, avventurosi, arditi, erano una classe
indisciplinata che animava la vita delle città nel momento della crescita
economica e urbana del XII secolo.
L’evolversi dell’atteggiamento verso
intrattenitori, musici, acrobati e altri artisti si percepisce soprattutto se
andiamo a guardare la condizione dei mestieri che fino almeno al XII secolo
erano considerati ‘pericolosi’ perché non si potevano esercitare senza cadere
nel peccato capitale della lussuria. I giullari ad esempio si distinguono all’inizio
del XIII secolo in tre tipologie: «gli acrobati che si abbandonano a vergognose
contorsioni, si spogliano senza pudore o si cammuffano con dei travestimenti
orribili; i parassiti delle corti e dell'entourage dei grandi, che
diffondono discorsi calunniosi, insinuanti, inconcludenti, tesi unicamente a
dividere e a infamare ed infine i musici il cui scopo è allietare il loro
auditorio[2].» Se
le prime due categorie sono condannate la terza si distingue da coloro che
incitano all'abbandono poiché comprende coloro che cantano le canzoni epiche e
le vite dei santi, consolando i tristi e gli angosciati. Solo i musici dunque
svolgono un'attività consentita. Attraverso questa porta tuttavia a poco a poco
tutti i giullari s'insinueranno nel mondo sempre più esteso delle professioni
lecite acquisendo una libertà d’espressione sempre maggiore.
Si moltiplicano inoltre
gli aneddoti che contribuiscono a giustificare e poi a integrare nel tessuto
sociale tutti i mestieri. Per quanto riguarda la categoria degli intrattenitori
nota è la storia del giullare che interroga Alessandro III (1159 - 1181) sulla
possibilità di salvarsi. Il pontefice gli domanda se conosce altro mestiere e,
alla risposta negativa del giullare, lo rassicura che può vivere del suo
mestiere purché eviti comportamenti equivoci e osceni.
Diversamente,
all’inizio del XII secolo Honorius d’Autun aveva posto la questione in termini
del tutto drastici: alla domanda ‘può un menestrello salvarsi?’, l’abate
risponde in maniera perentoria: «No. I menestrelli sono ministri di Satana. Ora
ridono, ma quando verrà per loro l’ultimo giorno sarà Dio a ridere di loro[3].»
Sempre meglio
integrati o tollerati dalla società i musici girovaghi rallegravano le feste
popolari e, sebbene guardati ancora in molti casi con sospetto, erano richiesti
e pagati per animare fiere, tornei e mercati. Venivano attesi dalle genti che
popolavano i villaggi e le città che stavano rifiorendo economicamente proprio
in questo periodo, costituendo una sorpresa, a volte dal sapore dissoluto e
peccaminoso, che interrompeva la routine della comunità, portando piacere per
alcuni, disturbo e noie per altri. I menestrelli e i chierici vaganti infatti
di solito conducevano una vita abbastanza dissoluta, frequentando taverne,
prostitute e praticando il gioco d’azzardo di cui molti di loro erano esperti.
In questo
periodo abbiamo una larga diffusione di musica e letteratura profana che veniva
composta o eseguita da menestrelli girovaghi o trovatori. In un’Europa ancora
poverissima ma avviata a un’esponenziale crescita economica e demografica nel
XI e XII secolo, le stradine strette e sinuose che seguivano le rotte dei
canali, potenza motrice della nascente industria urbana, le piazze dei mercati
e le sempre più frequenti fiere pullulavano di musica cantata e suonata da
menestrelli girovaghi, saltimbanchi, danzatori e persino giocolieri.
Queste figure
spesso si distinguevano poco tra di loro poiché a tutti questi intrattenitori,
che animavano piazze o tornei, erano richiesti diversi compiti. Secondo alcune
disposizioni vigenti nella Germania tardo medievale il menestrello doveva «saper
inventare, costruire rime, destreggiarsi come schermidore; sapere suonare bene
tamburi, cimbali e ghironda (bauernleier);
saper lanciare in alto piccole mele e afferrarle con la punta di un coltello;
imitare il canto degli uccelli, eseguire trucchi con le carte e saltare
attraverso i cerchi; suonare il clavicordo e la chitarra, suonare la crotta a
sette corde, accompagnare bene la fibula, parlare e cantare piacevolmente[4].»
L’artista girovago godeva insomma di una certa libertà ma doveva saper fare un po’
di tutto per guadagnarsi da vivere: il cantante, il cantastorie, lo
strumentista, il giocoliere.
Gli artisti
girovaghi percorrevano l’Europa in lungo e in largo seguendo le vie dei pellegrinaggi
o le grandi strade mercantili che spesso avevano tratti in comune: qui
viaggiavano uomini, soldati e merci e insieme ad essi circolavano idee nuove e
s’intrecciavano culture lontane e diverse tra loro contribuendo all’originalità
e alla ricchezza di forme espressive del tardo Medioevo.
I trovatori
della Provenza o dell’Aquitania gareggiavano in bravura con i trovieri della
Bretagna o della Piccardia e, più tardi, con i Minnesanger tedeschi[5].
Tra i chierici
vaganti si annoverano anche molti seguaci degli ordini pauperistici e dei
movimenti eretici anch’essi tendenti al pauperismo.
Gli Spirituali
francescani erano i più attivi in questo genere di attività ma tra i menestrelli
religiosi itineranti si annoveravano anche altri francescani scalzi che
venivano chiamati joculatores Dei. Essi svilupparono una canzone religiosa di
stampo popolare che seguiva lo schema della canzone dei jongleurs. Questi seguivano la tradizione ‘saltatoria’
risalente a sua volte da antiche danze propiziatorie per la fertilità dei
campi, esibendosi nelle piazze adiacenti le chiese o sullo stesso sagrato.
La stagione ‘saltatoria’
inoltre diede vita a numerose feste come le ‘feste dei folli’ o le ‘feste
dell’asino’ in cui erano palesi le contaminazioni tra sacro e profano: si
trattava di ‘carnevali’ in cui ci si mascherava, si scambiavano i ruoli e in
cui non erano esclusi travestimenti, nudità e atti osceni sulla falsariga di
celebrazioni folkloristiche legate alla fertilità e mai sopite nelle campagne ma
che ora transitavano nel tessuto urbano delle fiere e dei mercati popolari.
Con l’affermarsi del potere politico delle città e ancora di più nel passaggio dai Comuni alle Signorie anche i menestrelli cominciarono ad urbanizzarsi. Alcuni di loro continuarono ancora per un secolo a girovagare, godendosi in miseria la propria libertà, ma la maggior parte preferì una vita più sicura e stabile prendendo servizio presso qualche corte o presso le nascenti cappelle musicali.
Con l’avvento
delle Signorie e la nascita delle cappelle musicali nelle famiglie aristocratiche
e nelle chiese più importanti, la presenza di musici stabili venne considerata
una necessità.
In questo
momento assistiamo inoltre all’evoluzione nella musica dalla monodia alla polifonia
che favorirà la nascita di gruppi e cantori in pianta stabile che andranno a
formare l’organico delle cappelle musicali.
Per le sacre
funzioni domenicali, per le altre numerose festività religiose o per gli
intrattenimenti profani all’interno delle corti, si rese necessario l’impiego
di un gruppo, più o meno consistente, di cantori e di strumentisti che andavano
a formare la ‘cappella’, termine derivato dalla cappa o mantello di San Martino,
la reliquia più venerata in Francia e sulla quale si effettuavano giuramenti e
che in battaglia precedeva gli eserciti. Lo stesso nome veniva a designare così
sia la sacra reliquia sia il personale richiesto per un culto o per l’intrattenimento
di un nobile.
Nonostante la
figura dell’artista e del musico andasse acquisendo maggior stabilità sociale,
la paga era ancora molto bassa e i compiti non ben definiti. La durata dell’incarico
inoltre poteva dipendere dalla stima, dalla simpatia o dal patrimonio del
mecenate rendendo il musico e l’artista alla mercé delle tematiche più gradite
o favorevoli al suo padrone.
Bisognerà aspettare
l’Ottocento e l’avvento dell’individualismo Romantico perché di nuovo il
musicista o l’artista ritrovino lo slancio per vivere ed esprimersi liberamente
spesso però a costo di una vita di disagi e di stenti economici.
Nella società
ancora spiritualizzata del tardo medioevo, nel paesaggio ancora incontaminato
dei secoli che precedettero l’età moderna, la povertà non doveva essere una
condizione così opprimente come nella civiltà industriale dell’Ottocento: il
menestrello poteva scegliere di vivere con pochi mezzi godendo della semplicità
del suo modus vivendi e della condizione
di artista libero ispirato da Dio o dall’amor cortese.
[1] Jacques Le Goff, Genio del
Medioevo, Mondadori, Milano, 1959, p. 62
[2] Jacques Le Goff, Tempo della
chiesa tempo del mercante, Biblioteca Einaudi, Torino, 2000, p. 63
[3] Le Stanze della Musica. Artisti
e musicisti a Bologna dal ‘500 al ‘900, SilvanaEditoriale, Milano, 2002, p. 17
[4] H. Raynor crf in Le Stanze
della Musica. Artisti e musicisti a Bologna dal ‘500 al ‘900, SilvanaEditoriale,
Milano, 2002, p. 17
[5] Le Stanze della Musica. Artisti
e musicisti a Bologna dal ‘500 al ‘900, SilvanaEditoriale, Milano, 2002, p. 17