Articoli: All'ombra del cantiere del Duomo


Per l’anniversario della fondazione del Duomo di Modena, 9 giugno 1099
“L’arte è imitazione della natura nel suo modo di operare e principio di ogni manifattura.”
San Tommaso d’Aquino


La concezione dell’artista nel Medioevo era molto diversa da quella moderna e si avvicinava più alla definizione di artigiano che a quella di creativo. Tuttavia non bisogna pensare che gli artefici medievali fossero privi o non usassero la propria abilità creativa nell’operare.
La cattedrale era una concezione e il prodotto di un’azione corale e collettiva, perciò anche il lavoro dell’artista rientrava in quest’ottica.
Ogni membro della comunità vi contribuiva economicamente e spesso succedeva che i meno abbienti, coloro che non potevano contribuire alla costruzione della cattedrale cittadina con i loro denari, lo facessero con le loro braccia, affiancando manovali, carpentieri e lapicidi.

Il cantiere era diretto dal Maestro detto Magister operandi questi era la più alta carica a cui facevano riferimento tutti gli altri lavoratori. Egli tuttavia raramente era citato nei documenti e quasi mai “firmava” su pietra le proprie opere.
Uno dei primi casi in Italia in cui il Magister è citato sia sui documenti che sulla pietra è il Duomo di Modena.

La Relatio de Innovatione Ecclesie Sancti Geminiani ac de Translatione Eius Beatissimi Corporis, nota più comunemente solo come Relatio, è un importantissimo documento conservato presso il capitolo del Duomo di Modena. Esso attesta come la cattedrale del 1099 fosse un’opera corale a cui parteciparono, in varia maniera, tutte le classi della nascente civiltà comunale. In essa si fa riferimento, forse per la prima volta, al Magister della cattedrale, l’architetto Lanfranco, chiamato mirabili artefix. La scelta di questo direttore/progettista sembra in questo caso preliminare ad ogni altra scelta per la costruzione della nuova cattedrale modenese[1].
Lanfranco è inoltre citato in una lapide sull’abside esterna del Duomo di Modena dettata, secondo quanto riportato, dal Canonico Magischola Aimone il quale fu teorico del programma iconografico delle sculture.

Il Magister era affiancato quasi sempre da un braccio destro: uno scultore o un sagomatore.
Nelle miniature, nei rilievi e sulle vetrate il sagomatore viene raffigurato con in mano un grande compasso, a volte al suo fianco troviamo il Maestro con un compasso più piccolo: uno lavorava sulle dimensioni reali, l’altro su quelle ideali delle piante[2].
Un altro strumento con il quale viene raffigurato il Maestro è la bacchetta o bastone di cui egli si serviva per dare indicazioni supplementari rispetto a quelle che gli operai potevano trovare sulle piante le quali erano perlopiù molto semplici.
Ricordiamo che gli operai potevano essere anche persone del luogo e della città nella quale la cattedrale veniva costruita che contribuivano con il loro lavoro alla costruzione della stessa.
In un momento di ascesa delle realtà comunali e di formazione dell’identità cittadina, la costruzione della cattedrale era spesso, come accadde a Modena, un’impresa fortemente voluta e partecipata dalla comunità.

Sempre nella Relatio vediamo l’architetto Lanfranco rappresentato con il tipico bastone o bacchetta del Magister mentre dà istruzioni alla comunità e agli operai.
Si legge inoltre che è Lanfranco stesso a prendere importanti decisioni come la scelta del momento in cui le spoglie di San Geminiano, il patrono locale a cui la cattedrale è dedicata, debbano essere traslate e la comunità lo ascolta e presta fede alle sue indicazioni.
Nonostante il prestigio e l’autorevolezza di cui godeva presso il cantiere e la comunità il Maestro si prestava a svolgere una molteplicità di incarichi e di opere sia teoriche che manuali.
In un momento in cui le arti applicate cominciavano ad essere legittimate accanto a quelle liberali o teoriche, nel cantiere della cattedrale il lavoro intellettuale e quello manuale coesistevano l’uno accanto all’altro: l’architetto, lo scultore, il lapicida ed altre figure specializzate facevano sia l’uno che l’altro. Nel cantiere si applicava la divisione del lavoro secondo specializzazione ma molte volte le figure di riferimento, come il Maestro o lo scultore, facevano vari lavori sia di tipo manuale che di tipo teorico. L’esperienza era molto importante e il Maestro acquisiva la carica di direttore e supervisore soprattutto grazie al lavoro manuale nei cantieri in cui aveva operato e che poi aveva diretto lui stesso.
 

L’orario di lavoro inoltre era lo stesso per tutti e si svolgeva dall’alba al tramonto: dodici ore d’estate e circa nove d’inverno. Il sabato pomeriggio e la domenica erano destinati al riposo in modo che tutti i lavoratori del cantiere potessero unirsi alla comunità per le celebrazioni liturgiche.

Il cantiere inoltre si fermava per lo stesso motivo in occasione delle festività cristiane: in una società che si stava avviando verso un’organizzazione pre-industriale con la nascita dei primi turni, specie nelle fabbriche dei tessuti e nelle concerie, il lavoro festivo e notturno era visto ancora come qualcosa di peccaminoso perché andava contro i ritmi naturali imposti da Dio e alla liturgia che proprio sull’anno ciclico e naturale delle stagioni e sull’alternarsi del buio e della luce si basava.
I professionisti, come Lanfranco, venivano spesso da fuori città ed erano stati chiamati, con i loro collaboratori, dall’autorità religiosa e civile per dirigere i lavori in base alla fama che si erano guadagnati in opere precedenti, come attestato anche nella Relatio.

Nonostante la fama e l’autorità di cui godeva, il Magister viveva con i suoi operai e prendeva i pasti insieme a loro. Egli era al contempo ingegnere, architetto ed esecutore di alcuni lavori manuali. Progettava lui stesso edifici e macchine, organizzava il cantiere, dirigeva e seguiva l’esecuzione dei lavori, molte volte si faceva personalmente carico delle opere più difficoltose e delicate[3].
Nella già citata Relatio il prezioso documento del XIII secolo che testimonia le fasi di costruzione del Duomo di Modena, si legge: “S’innalza intanto una macchina per diversi usi, si scavano blocchi di marmo, si innalzano in opera con grande fatica e con accortezza da parte degli addetti ai lavori.”
La macchina di cui parla questo documento era sicuramente un’opera di ingegneria medievale dell’architetto Magister Lanfranco citato non solo nella Relatio come mirabili artefix ma lodato anche in un’epigrafe, anch’essa risalente al XIII secolo, posta sull’abside centrale all’esterno.
Questa iscrizione loda Lanfranco come “sapiente e dotto, celebre per il suo ingegno, primo architetto e sovrintendente del Duomo di Modena”.
 

Sia la Relatio che l’epigrafe sulle absidi esterne sembrano essere opera del Magister Scholarum Aimone, colui che dettò il programma iconografico del Duomo di Modena.

La Relatio è infatti un documento pieno di lirismo e di commossa partecipazione che solo un testimone oculare coinvolto nella costruzione del Duomo di Modena avrebbe potute scrivere con tale intensità emotiva. 

Le figure più autorevoli del cantiere erano, accanto al Maestro, l’apparecchiatore, il maestro lapicida e il maestro carpentiere e alla direzione di un’opera spesso si arrivava passando prima per uno di questi incarichi.
Con il termine lapicida venivano indicati sia gli esperti del lavoro sulla pietra grezza che gli scultori. Queste figure non sono quasi mai citate: in epoca romanica l’unico scultore citato sulle pareti di una cattedrale è Wiligelmo. Se di Lanfranco era nota la fama già prima che il suo nome fosse speso per la costruzione del Duomo di Modena, Wiligelmo è citato più tardi a fondo di un’iscrizione presente nell’epigrafe che ricorda la data di fondazione del Duomo.
Si tratta di un’iscrizione che viene dopo l’inizio dei lavori e che cita lo scultore solo in un secondo momento: le lettere della frase in cui è citato Wiligelmo sono più piccole di quelle presenti nel resto del testo.
In ogni caso lo scultore deve essersi guadagnato una chiara fama con il lavoro all’interno del cantiere se questa “aggiunta” al testo dell’epigrafe recita le seguenti lodi: “Fra gli scultori quanto tu sia degno d'onore lo mostra ora la tua scultura, oh Wiligelmo”.

Wiligelmo e i maestri lapicidi che lavoravano sotto la sua supervisione, erano, come in tutti i cantieri medievali, un tramite tra la cultura dotta degli ecclesiastici e quella empirica dei loro colleghi.
Come a Modena il programma iconografico era stato ideato con la consulenza e le indicazioni del canonico magiscola Aimone, così anche nelle altre cattedrali medievali gli scultori e i lapicidi erano affiancati da teologi di prestigio e da colti monaci. Essi avevano inoltre modo di sfogliare i preziosi manoscritti miniati conservati nelle abbazie e nei capitoli delle cattedrali per poterne trarre la “corretta” ispirazione.
Già nel Concilio di Nicea del 787 la Chiesa aveva sancito che «La composizione delle immagini sacre non è lasciata all’ispirazione degli esecutori; essa appartiene ai princìpi posti dalla Chiesa cattolica e dalla tradizione religiosa. La tecnica sola appartiene al creatore di immagini, mentre la composizione appartiene ai Padri»[4].

È così che anche sul Duomo di Modena le scene in cui è condensato il racconto del Genesi, scolpito da Wiligelmo nella facciata principale, sembrano con tutta probabilità tratte da un dramma semi-liturgico chiamato, Jeu d’Adam, in voga nel momento in cui veniva costruita la cattedrale e rappresentato sui sacrati delle cattedrali cittadine[5].
Per molte immagini tuttavia resta ancora difficile trovare un riferimento diretto a Modena così come altrove: i lapicidi, nonostante la supervisione dei dotti ecclesiastici, spesso non erano istruiti sufficientemente sulle Sacre Scritture né conoscevano il latino. È per questo che, come i testi in latino presenti nelle cattedrali riportano alcune volte errori e imprecisioni, così non è da escludere che la traduzione delle indicazioni impartite dai canonici abbia subito qualche alterazione durante la messa in opera degli scultori.

L’artista medievale non era considerato come l’artista contemporaneo un genere speciale di uomo, ma ogni uomo poteva essere, grazie al proprio mestiere, un genere particolare di artista.
All’artista, come abbiamo visto, non spettava di decidere che cosa dovesse essere fatto perché questo era il compito del committente, in questo caso una diocesi o una comunità.
Se al committente spettava la decisione di cosa dovesse essere fatto, all’artista, nel suo ruolo di artefix, competeva saperlo fare bene[6].

L’artista medievale non vedeva nell’arte una forma di autoespressione e il committente non aveva la minima curiosità verso la vita privata dell’artista e la sua personalità.
Questi motivi spiegano l’anonimato della maggior parte degli artisti medievali e la mancanza di informazioni riguardo al loro vissuto. Quando l’artista firmava l’opera, come nel caso ad esempio di Diotisalvi che firma su pietra il Battistero di Pisa (Diotisalvi Magister), era solo per una forma di garanzia: «contava infatti non chi si era espresso ma ciò che era stato espresso.»[7]

Il diritto d’autore sarebbe stato inconcepibile, poiché si riteneva ovvio non esserci proprietà nel campo delle idee, quasi che queste appartengano a chi le accoglie: di conseguenza, chiunque fa sua un’idea compie un’opera originale di messa in luce di ciò che scaturisce direttamente da una sorgente interiore, senza curarsi di quante volte quella stessa idea può essere già stata espressa da altri anche prossimi a lui.[8]
Wiligelmo ad esempio offrì il modello per tutto il romanico padano: lapicidi e maestri che ripresero in pari lo stile e i moduli decorativi dello scultore che si era distinto a Modena con la costruzione della cattedrale del 1099. Ancora nel secolo successivo all’opera di Wiligelmo nel Duomo di Modena, influenzava il lavoro di altri grandi scultori come Nicholaus e Antelami.

In un’epoca come quella romanica in cui cominciava a formarsi un’etica del lavoro, l’artista così come l’artigiano consideravano la propria attività come un privilegio che aveva un doppio significato religioso e sociale: assicurarsi la salvezza eterna attraverso il proprio buon operare e un posto nella società sempre più diversificata dei primi Comuni e delle prime Repubbliche italiane.
La nascita delle corporazioni contribuì ad accentuare l’orgoglio professionale già presente nei Maestri che da inizio millennio lavoravano nei cantieri in un’azione corale che li distingueva come gruppo più che come individui.
Ogni gruppo di maestri muratori, diretti dall’architetto affiancato dalle figure che abbiamo visto poco sopra, aveva in questo senso un segno distintivo che poteva essere un marchio per i lapicidi o un simbolo per la confraternita di costruttori.
I marchi che i maestri lapicidi ponevano sulle pietre servivano in origine per distinguere le pietre e riconoscere quelle che dovevano essere posizionate in un punto anziché in un altro. Essi passarono poi a distinguere un gruppo di artigiani provenienti dalla stessa zona e diventarono una sorta di manifestazione di orgoglio professionale di un gruppo di lavoratori che operava “a regola d’arte”.

La cattedrale era frutto di questo lavoro corale e collettivo e non esprimeva valori individuali o personali bensì universali.
La cattedrale di Modena è stata costruita come immagine della bellezza che per la società cristiana di allora era innanzitutto la bellezza della Gerusalemme celeste: una città perfetta le cui proporzioni si corrispondevano armoniosamente secondo i criteri della geometria antica che basava le sue conoscenze e le forme da esse derivate sull’osservazione dei fenomeni naturali.
Nell’arte di Lanfranco, di Wiligelmo e dei grandi maestri anonimi che costruirono questo monumento corale, dal maestro delle metope al maestro di Artù, si distinguono artisti che hanno saputo esprimere la loro personalità soggiogandola a un’idea universale e a una funzione collettiva.

L’arte medievale, l’arte della cattedrale, diventa così bella in quanto utile e veicolo di un messaggio universale rivolto a tutti i popoli.
Il suo simbolismo non fu il linguaggio privato di un individuo, di un secolo o di una nazione ma un linguaggio universalmente intellegibile: quella philosophia perennis che Sant’Agostino definisce «Sapienza increata, che è ora ciò che è sempre stata e sarà.»[9]

Elisabeth Mantovani
Storico dell’arte e guida turistica
sito web:
www.elisabethmantovani.blogspot.it
email: info@elisabethmantovani.com




[1] Relatio translationis Sancti Geminiani mutiniensis presulis, dal codice O.II.11 (sec. XIII) dell’Archivio Capitolare del Duomo di Modena.
[2] Le cattedrali del mistero, Angela Cerinotti, Firenze, Giunti Editore, 2005, p. 36
[3] Ibidem
[4] Le cattedrali del mistero, Angela Cerinotti, Firenze, Giunti Editore, 2005, p. 37

[5] Wiligelmo. Le sculture del Duomo di Modena, Chiara Frugoni, Modena, Franco Cosimo Panini, 1996, pp. 34-35
[6] La filosofia dell’arte cristiana e medioevale, Ananda Kentish Cooramaswamy, Milano, Absondida srl, 2005, p. 117
[7] Ivi p. 118
[8] Ibidem
[9] La filosofia dell’arte cristiana e medioevale, Ananda Kentish Cooramaswamy, Milano, Absondida srl, 2005, p. 117