Articoli: Inquisizione e stregoneria a Modena


La macchina dell’Inquisizione nasce nel 1233 con il fine di trasformare il giudizio di Dio in una razionale ricerca della verità. Si combattono gli eretici ma anche le streghe e soprattutto tutti i dissidenti.
Quando nel 1542 l’Inquisizione romana inizia il suo corso, l’Italia imita la Spagna paese dove il meccanismo inquisitorio contro ebrei e musulmani riceve il benestare del Papa sul finire del XV secolo. L’Italia inizia in questo modo l’epoca dell’Inquisizione moderna con l’obiettivo di mettere fine ai processi sommari ma anche con quello opposto di un maggiore controllo nei riguardi di ogni comportamento sociale ritenuto sospetto. Ogni tribunale locale agirà sotto la giurisprudenza del Santo Uffizio.
Negli archivi di Venezia, Siena, Napoli e Modena si trova la più cospicua documentazione riguardante l’attività dell’Inquisizione.
L’archivio di Modena consta di 303 documenti che coprono un arco che va dal 1329 al 1785 anno nel quale l’Inquisizione verrà abolita dal duca Ercole III. Tra questi documenti si distinguono tre gruppi importanti: le lettere provenienti dalla Santa Inquisizione di Roma; una sezione di editti cittadini; i fascicoli processuali che raccontano le storie di oltre 6000 inquisiti.
L’archivio di Modena si configura dunque come un unicum tra gli archivi che non siano vaticani.
Anche se la documentazione resta cospicua si deve considerare che molti documenti andarono distrutti. Dalla documentazione rimasta possiamo dedurre che i processi per stregoneria riguardavano soprattutto le donne. I verbali riportavano due lingue: le domande dell’Inquisitore in latino e le risposte dell’inquisito in volgare. Questi verbali offrono un’apertura straordinaria sulla realtà quotidiana e sulle consuetudini dell’epoca in cui sono stati scritti e si sono svolti i processi.
Sin dal Medioevo la persecuzione degli eretici era stata affidata dal papato agli ordini mendicanti francescani e domenicani. A Modena la sede dell’Inquisizione è attestata sin dal 1289 presso il convento di San Domenico.
                                                                Chiesa e convento di San Domenico a Modena
Dal 1542 la sede centrale della Congregazione del Santo Uffizio sarà il convento domenicano della Chiesa di Santa Maria sopra Minerva a Roma. Sviluppatosi progressivamente nel corso del XIV secolo, il convento divenne, nel corso dell'età moderna, la sede delle alte gerarchie dell'ordine domenicano (maestro generale, procuratore) e ospitò la Congregazione del Santo Uffizio. Vi ebbero luogo due conclavi e l'abiura di Galileo. Nel convento di San Domenico a Modena risiedevano invece tutte le gerarchie dell’Inquisizione locale: dai grandi inquisitori ai maestri di teologia. Il mercoledì venivano discussi i casi di eresia dagli inquisitori locali. Questi dovevano dimostrare una certa esperienza e anche per questo non potevano avere meno di quarant’anni; la sede di Roma dava loro disposizione precise su come procedere.
Ogni inquisitore in ogni sede emanava un editto che serviva per elencare i comportamenti che erano perseguiti dal tribunale. Questo editto veniva prima letto pubblicamente poi affisso sui portoni delle chiese affinché nessuno potesse dire di non averlo letto o di non conoscere ciò che era proibito.
Le storie di donne raccontate nei verbali di Modena sono quelle di vedove, donne sole, guaritrici, erbarie, levatrici. Il termine con cui le si designa in gergo è masca o ianara, due termini diversi ma equivalenti per indicare una strega.
Il termine strega è derivato dal linguaggio classico: la Strix infatti era un uccello notturno a cui veniva attribuita la capacità di succhiare il sangue ai bambini durante la notte. L’inquisitore utilizza il termine strega per indicare la qualità malefica della donna che si esprime infatti soprattutto nei confronti dei bambini succhiando loro il sangue e operando su di essi altri malefici. Il succhiare il sangue era sinonimo del togliere la vita. La strega viene anche chiamata stria secondo una terminologia più specificatamente legata al sabba il quale compare nei verbali come striazzo.
La storia di Orsolina la Rossa è uno dei racconti più noti documentati nei verbali di Modena. Il processo, datato 1539 e conservato presso l’Archivio di Stato di Modena, offre una descrizione ricca e dettagliata del sabba. Interrogata più volte Orsolina fu spinta a confessare dettagli particolareggiati del sabba sotto tortura al fine di aver risparmiata la vita. Negli ultimi interrogatori, durante i quali fu messa ad ardere sopra un falò acceso sotto i suoi piedi, i dettagli del sabba divennero sempre più ricchi e per certi versi macabri.
Secondo questi racconti al sabba non partecipavano solo altri esseri umani ma anche demoni dotati di forme ibride: uomini con piedi animali. Nei rituali avvenivano unioni sessuali tra demoni ed esseri umani, vituperi su oggetti sacri e consacrati come l’ostia e la croce, l’adorazione del demonio che era presente lui stesso in carne ed ossa, il volo verso un noce, presso il quale si svolgeva il sabba, in groppa esseri ibridi metà umani e metà animali. Questi racconti rivelano la derivazione di certi dettagli da riti sciamanici ancestrali arrivati per tramite del folklore popolare fino al XV secolo e rielaborati dagli inquisitori in forma di stregoneria colta.
Dopo il sabba Orsolina racconta di tornare a casa e di “guastare bambini succhiando loro il sangue”: questa attività malefica contro i bambini è proprio quel che il diavolo richiede alle sue adepte. I fatti raccontati in questo processo ricorrono nella maggior parte degli altri processi istituiti in Europa dall’inizio del XV secolo alla fine del XVII secolo. Se ne trova inoltre traccia abbondante nei trattati di demonologia in cui viene codificata, durante questo periodo, l’attività delle streghe.
Tra questi trattati un posto di rilievo è occupato dal “Maellus Maleficarum” letteralmente il martello delle malefiche, ovvero delle streghe. Si tratta di un trattato in latino scritto da un inquisitore alsaziano appartenente all’ordine dei domenicani, Jacob Sprenger, che appare intorno al 1486 - 1487 e che godrà di una fama straordinaria. Il trattato è fortemente misogino e si batte soprattutto su due temi verso i quali certe categorie di donne vengono ritenute colpevoli: l’infanticidio e il coito con i diavoli.
Queste donne spesso fuggono da una vita di povertà e solitudine e come Orsolina restano vittime dei meccanismi inquisitivi. Nei racconti di Orsolina la Rossa è evidente come ella fuggisse da una vita mesta sognando danze, corpi esultanti e abbondanza di cibo.
Il 10 giugno 1539 Orsolina la Rossa viene mandata a Ferrara, sede dell’Inquisitore generale e per lei si configura il grave reato di stregoneria. Grazie alla confessione di tutti i particolari del sabba, ottenuta sotto tortura, le viene graziata la vita ma è costretta al carcere per sempre nella propria casa.
Dopo la confessione l’abiura poteva avvenire pubblicamente o privatamente a seconda della gravità dei crimini commessi. Nel caso di Orsolina avvenne pubblicamente nella chiesa di San Domenico a Modena. Tutti, inoltre, erano chiamati ad assistere all’abiura che aveva un effetto immediato e prolungato molto infamante.

Come già accennato l’istituzione nel 1542 del Santo Uffizio di Roma spense l’ondata di roghi nell’Italia del nord ma nell’età moderna la caccia alle streghe assunse forme diverse e insinuanti: lentezza nel procedere, attenzione alle prove, l’uso della tortura non più selvaggio grazie al passaggio a forme morbide ma insidiose di confessione. Decisiva fu la regola secondo la quale se il penitente confessava che sapeva qualcosa su di sé o su altri era invitato dal confessore a dirlo al vicario della città altrimenti non avrebbe ottenuto l’assoluzione dai peccati commessi. Egli diventava così imputato o dava il via a un processo contro altri. I figli potevano denunciare i genitori, i mariti le mogli, i parenti altri parenti e così via. Si apriva in questo modo una caccia sistematica e insidiosa alla dissidenza in ogni forma.
Nei processi del ‘600 spariscono i voli magici verso i raduni del sabba: le streghe sono accusate di recitare formule e sortilegi. Tra i processi di questo periodo testimoniati nei verbali di Modena spicca quello a Ginevra Gamberini, accusata di essere meretrice e di fare sortilegi d’amore.
Questo processo ha inizio con una denuncia presentata al vicario foraneo di San Giovanni in Persiceto, luogo di residenza di Ginevra: è il fratello del marito ad accusarla.
Egli racconta di essersi recato a casa del fratello a seguito della sua morte violenta e di aver trovato sotto il letto scritture che, guardando bene, si erano rivelate diavolerie. Benedetto, questo il nome cognato dell’accusata, e la moglie Giovanna portano le prove d’accusa contro Ginevra: queste consistono in scritture, sacchetti di fave, rametti di olivo e altri oggetti tra cui un pentolino con acqua torbida con odore sgradevole che è il capo d’accusa più evidente. Il pignattino con olio, cera, urina o sangue mestruale, a cui veniva attribuito un potere molto efficace, era lo strumento principale dei sortilegi. Con questo si facevano rituali d’amore, fortuna o morte. Questi elementi inoltre venivano usati insieme ad altri della liturgia cattolica e maneggiati recitando preghiere ed orazioni.
L’ 8 novembre 1603 Ginevra viene arrestata e condotta nelle carceri della sede inquisitoriale a Modena. Dopo diversi interrogatori viene accusata di aver fatto commercio carnale con il consenso del marito, anche se al momento del processo Ginevra era solo concubina. Per le donne povere, sole o non riconosciute dalla società, il sortilegio era un modo per cambiare in meglio il proprio destino di povertà e solitudine. Durante gli interrogatori Ginevra risponde che non ha fatto alcun maleficio, né alcun sortilegio per farsi voler bene dalle persone. L’inquisitore spazientito inizia a mostrare le prove portate dal cognato e Ginevra afferma che i suoi parenti non le hanno mai voluto bene e che hanno tentato di vendicarsi in molti modi facendogli nel tempo diverse angherie.
Nei giorni successivi si svolgono altri processi e Ginevra conferma di non saper fare alcun sortilegio. A seguito si legge dell’assenza di Ginevra dall’aula perché sta male: la detenzione durava infatti da più di un mese. Per ottenere la confessione si ricorreva alla “questio rigorosa” ovvero alla tortura che per la sofferenza che provocava talvolta era sufficiente a purgare l’imputato dall’eresia.
Ginevra viene torturata: spogliata, legata per i polsi e sospesa per aria ad una carrucola viene strattonata per tre volte ma nonostante il dolore accertato e testimoniato dal notaio nei verbali del processo, la donna non confessa e anzi pronuncia questa frase: “Nostra Donna (la Madonna) accettami che sono morta”.
Ginevra viene condannata a pene salutari che consistevano in un lungo periodo a pane e acqua, alla recita quotidiana della corona del rosario per tre mesi, alla recita quotidiana per cinque volte al giorno del Pater Noster davanti a un’immagine sacra.
Nei documenti dei processi si trovano molte inimicizie tra parenti e vicini come quelle testimoniate nei documenti del processo a Ginevra Gamberini: quando le tensioni arrivavano ad un certo livello e la comunità non riusciva a risolverle, ci si rivolgeva all’Inquisizione. Questa era una soluzione discutibile ma sbrigativa per farsi giustizia e risolvere le tensioni accumulate.

Qualche decennio prima di questo processo i sortilegi d’amore con formule e rituali erano tollerati. Le cose cambiarono nel corso del Cinquecento per un’importante iniziativa di Sisto V che nel 1586 emana la bolla “Coeli et Terrae”. Con questa bolla Papa Sisto V operò una vera rivoluzione sociale: non solo condannò l'astrologia e la magia rinascimentale, fino ad allora tollerate, ma stabilì anche la competenza degli inquisitori nelle semplici pratiche di magia ovvero nelle pratiche illusionistiche, quelle che non producevano effetti concreti sulle persone. Da questo momento anche il sortilegio, pratica abbastanza diffusa popolarmente, rientrò nelle competenze dell’Inquisizione romana.
I meccanismi che portarono ad individuare alcune donne e ad additarle da parte della comunità sono ancora al vaglio dell’indagine. Sono tuttavia sempre le comunità che chiedono di intervenire perché c’è una donna che fa morire i bambini o le bestie della stalla oppure fa inaridire i campi agricoli.
Questa nuvola di pericolo e di paura circonda le donne vecchie, sole, quelle povere e mendicanti, le curatrici e le levatrici chiamate dalle famiglie più abbienti ad aiutare nei lavori domestici o a fasciare e sfasciare i neonati. Il mondo che circonda queste donne non è un mondo rassicurante e che le protegge ma una società che fabbrica in continuazione i suoi corpi estranei e in cui le donne, specie se sole, sono considerate un pericolo. Uno dei mestieri che attirava di più le accuse di stregoneria è quello della levatrice che cura i neonati. Se si conta che nel Seicento la mortalità infantile era alta anche presso le famiglie più abbienti si intuisce il legame tra accusa ed accusato. Spesso la causa di morte era da ricercarsi nelle scarse condizioni igieniche, nella mancanza di luce sufficiente o nelle condizioni umide e malsane delle case tuttavia la colpa ricadeva non poche volte sulle levatrici, donne spesso sole e di modesta condizione economica.

L’archivio modenese conserva anche la storia di una di queste levatrici che è anche una guaritrice. Crevalcore, un piccolo paesino del bolognese allora sotto la giurisdizione dell’Inquisizione di Modena, è il teatro della vita di Lucia, levatrice venuta da fuori, di cui si conosce poco anche dai documenti e che la comunità comincia a vedere di cattivo occhio, perché da quando presente nel paese succedono strane cose. L’estraneità di Lucia alla comunità del paese è un fattore che non facilita la sua vita e la sua integrazione e che sarà fatale a molte altre donne. Il fascicolo del processo contro Lucia Bertozzi inizia con una dichiarazione del vicario di Crevalcore all’inquisitore in cui si parla di sospetti ed inimicizie nei confronti della donna. Lucia viene accusata dal popolo di stregoneria: vicini di casa ed ecclesiastici testimoniano a sfavore di Lucia, in poco tempo le accuse si moltiplicano. In paese ella è necessaria come balia e levatrice ma ha accumulato nel tempo molte inimicizie: la fama è un accusatore figurato e la sola mala fama può fare partire processi con sospetto di scarsa ortodossia. La cattiva fama di Lucia è purtroppo confermata anche da ecclesiastici che si rivelano poi essere suoi concorrenti sul piano della guarigione e della protezione dalle malattie.
Di Lucia non si sa molto se non che frequenta le botteghe degli speziali a Faenza e ha contatti sistematici con almeno un medico.

Da questa storia emerge come la progressiva professionalizzazione e istituzionalizzazione della medicina durante il Seicento abbia contribuito ad escludere dalla società figure di guaritrici, conoscitrici di erbe e rimedi naturali come Lucia.
Le testimonianze contro la donna si affollano e l’Inquisitore chiede ai tanti testimoni dei comportamenti non ortodossi mostrati da Lucia. Questi erano individuati, ad esempio, nell’utilizzo di rimedi popolari e oggetti ai fini della guarigione, pratiche prima normalmente tollerate. L’accusa viene aggravata dalla testimonianza di un ex amante che racconta come Lucia lo abbia reso impotente. Tra le facoltà attribuite alle streghe c’era anche la credenza che potessero rendere impotenti gli uomini. Il fatto che un uomo potesse avere rapporti con una donna ma non con altre era sintomo principale che era stato colpito da un maleficio. Lucia è prima interrogata a Crevalcore poi tradotta a Modena davanti all’Inquisitore titolare. Interrogata numerose volte controbatte dimostrando una certa arguzia e forza di carattere e affermando con decisione di non aver fatto malefici.
Il verbale di Lucia racconta di un ricco mondo di saperi erboristici precluso all’universo maschile e verso il quale l’uomo prova attrazione e timore.
Lucia verrà condannata il 4 settembre del 1636 con una pena mitigata: sarà bandita da tutta la giurisdizione, pena la fustigazione, inoltre, per un anno, una domenica al mese dovrà confessare i suoi peccati.

Sul finire del Settecento si placa in tutta Italia la macchina dell’Inquisizione ma non quella della paura e dell’odio contro un universo femminile ricco e misterioso che provoca attrazione e sgomento, sentimenti che da secoli azionano una macchina di ingiustizie e violenze che non è mai morta.

Elisabeth Mantovani -
Guida Turistica e Storico dell’arte email info@elisabethmantovani.com

Fonti video: Eccellentissima Strega. Tre processi dell’Inquisizione. Documentario prodotto da Rai Storia, 2015
Fonti cartacee: Domizia Weber, Sanare e maleficiare. Guaritrici, streghe e medicina a Modena nel XVI secolo.